Il consenso informato, o consenso al trattamento sanitario, è un elemento basilare del rapporto medico-paziente, che affonda le radici nella Costituzione della Repubblica Italiana.
Nell'articolo 32 della Costituzione, secondo comma, si legge infatti:
Art. 32, secondo comma
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Sebbene l’articolo 32 sia presente nella Costituzione già dal 1948, per molti anni non ne è stato garantito il rispetto durante la pratica medica quotidiana. Basti pensare a quante volte la diagnosi di una malattia a prognosi grave o infausta è stata tenuta nascosta al paziente, negandogli il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute. Situazione che si è però ribaltata negli anni ’90, con una storica sentenza.
Abbiamo approfondito l’argomento insieme al nostro tootor, Gian Aristide Norelli (esperto di medicina legale e odontologia forense), che ricorda il ruolo cruciale di tale sentenza nella storia della medicina italiana e dell’applicazione del consenso informato.
«Era una prassi che veniva normalmente usata, quella di non dire alla persona assistita se la malattia era grave, tentando una concezione paternalistica del rapporto fra il medico e la persona assistita, cercando di tranquillizzare quasi la persona, che naturalmente si trovava a non poter operare le proprie scelte» spiega Norelli. «Questo fino agli anni ’80, quando successe un fatto molto particolare: una signora fu sottoposta a un intervento chirurgico da un illustre clinico contro il suo consenso. La persona aveva espressamente manifestato la volontà di non essere sottoposta a un certo tipo di trattamento chirurgico, e il medico aveva assicurato non sarebbe stato effettuato. Invece, dopo che la signora fu anestetizzata, il trattamento rifiutato fu ugualmente eseguito. Nel corso dell'intervento subentrarono delle complicanze, e la signora non sopravvisse.»
Per la prima volta, dunque, la condotta di un medico fu attenzionata dal punto di vista penale e non, come poteva essere avvenuto in passato, per un errore nell'esecuzione tecnica dell'intervento, ma per una violazione alle disposizioni dell'articolo 32, secondo comma, della Costituzione.
Nel 1992 la Corte d'Assise d'Appello e la Corte di Cassazione giunsero a delle conclusioni che si sarebbero rivelate molto pericolose per la professione medica, riportando quanto già disciplinato dall’articolo 50 del Codice Penale sul consenso dell'avente diritto:
Art. 50 Codice Penale
Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne.
«Si disse che l'articolo 50 del Codice Penale era, in sostanza, il motivo per cui la professione medica aveva il suo presupposto di liceità, cioè che l'atto medico sarebbe stato da ritenere non lecito se fosse stato eseguito in assenza del consenso dell'avente diritto» prosegue Norelli. «Si comprende bene come una situazione di questo genere venne a creare un grave disagio per i medici, che in sostanza erano soggetti che esercitavano una professione illecita se non resa possibile dal consenso dell'avente diritto.»
Da quel momento e per diversi anni, furono numerosi i processi a medici indagati per lesioni personali volontarie. Le cose cambiarono, infatti, solo a partire dal 2009.